reso possibile grazie ad una nanoparticella biodegradabile contenente il glutine che, iniettata ai pazienti, ha permesso loro di mangiare glutine per 2 settimane senza subirne le abituali conseguenze. La scoperta è di notevole importanza, perché allo stato attuale non esiste una cura per la celiachia e i soggetti affetti da tale patologia devono necessariamente ricorrere ad una dieta composta da alimenti gluten-free.
La celiachia è una malattia autoimmune in cui il sistema immunitario riconosce come nemico la principale componente proteica del grano, il glutine, e cosi reagisce attaccando le pareti intestinali. Gli esperti attivi in questa ricerca hanno usato la nanoparticella come un “cavallo di troia” per insegnare al sistema immunitario dei pazienti a considerare il glutine non più pericoloso e quindi a non reagire. La nanoparticella contenente glutine, infatti, iniettata nel sangue viene subito captata da cellule immunitarie, i macrofagi, che letteralmente ingoiano il suo cargo e avvertono altre cellule immunitarie della sua innocuità, cosicché si prevengano reazioni avverse al glutine.
Il nanodispositivo è stato già posto al vaglio della FDA statunitense e sarà ora testato anche per altre malattie autoimmuni e per allergie alimentari come quella alle arachidi.
La celiachia è una delle malattie croniche legate all’alimentazione più diffuse a livello globale e può comparire a qualsiasi età. Attualmente si stima che la celiachia interessi circa l’1% della popolazione generale e che sia più frequente tra le donne (3 volte più che negli uomini).
Il Ministero della Salute stima che i celiaci in Italia siano 600mila, ma il dato non tiene in considerazione chi non è stato ancora diagnosticato, non meno di un 30% in più secondo l’Associazione Italiana Celiachia. Infatti, sebbene sia una delle patologie croniche più frequenti, l’eterogeneità delle espressioni cliniche spesso non la rende tempestivamente riconoscibile. Dal 2017, con la revisione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), la celiachia è stata inserita nell’elenco delle malattie croniche invalidanti. Tale collocazione prevede il regime di esenzione sia per tutte le prestazioni sanitarie successive alla diagnosi, sia per gli alimenti senza glutine specificatamente formulati per i celiaci (es. pane, pasta, biscotti, pizza, cereali per la prima colazione e alimenti similari) che devono coprire il 35% del fabbisogno energetico totale giornaliero da carboidrati senza glutine.
I fattori che possono determinare l’insorgere della malattia sono essenzialmente due: fattori ambientali, ossia una dieta con cereali contenenti glutine e fattori genetici, oppure la presenza di specifiche sequenze nei geni che definiscono la struttura con cui le nostre cellule immunitarie riconoscono i diversi elementi che vengono a contatto con esse. I sintomi con cui la malattia si presenta possono essere molto vari, a carico di diversi organi e con differente gravità. A lungo andare, la reazione autoimmune, scatenata dal glutine nei soggetti celiaci, produce un’infiammazione che danneggia il rivestimento dell’intestino tenue e impedisce l’assorbimento di alcuni nutrienti.
La celiachia è stata nominata per la prima volta da Areto di Cappadocia che, nel 250 d.C., scriveva dei koiliakos, “coloro che soffrono negli intestini”. Nel 1856, Francis Adams tradusse questo termine dal greco all’inglese, coniando l’espressione “celiaci”. Pochi anni dopo, nel 1888, Samuel Gee descrisse i sintomi dettagliati di questa condizione sia negli adulti che nei bambini, anticipando che l’unica valida cura fosse una dieta adeguata, basata sulla quasi totale eliminazione degli alimenti derivati dalla farina. Solo a metà del XX secolo, però, fu chiarito che la celiachia si manifesta in alcune persone in seguito all’ingestione di proteine del grano che danneggiano la mucosa intestinale.